“Un milione d’anni fa, o forse due…”
Ryu, ragazzo delle caverne (Steffi e Le Mele Verdi)
Ovvero di quel che è stato e che forse ancora è.
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Ogni mattina, in Africa, una gazzella si sveglia, sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa. Ogni mattina, in Africa, un leone si sveglia, sa che deve correre più in fretta della gazzella, o morirà di fame. Ogni mattina a Monza, un commercialista si alza, scende al bar per fare colazione con cappuccio e brioche e neppure pensa alla fortuna (dalle sue parti si dice diversamente) che ha avuto a non nascere qualche migliaio di anni prima, quando oltre alla gazzella e il leone, nella storiella c’era un suo progenitore che se voleva campare doveva svegliarsi prima degli altri due, perché se si svegliava dopo di loro, col cavolo che prendeva la gazzella prima che il leone mangiasse tutti e due. Per inciso la storia non sarebbe cambiata se al posto del commercialista di Monza ci fosse stato un dietologo.
Lasciamo momentaneamente da parte leoni, gazzelle e commercialisti vari, e facciamo un piccolo test d’ingresso, giusto per vedere se conviene fare qualche precisazione prima di partire in quarta: come stiamo messi in fatto di conoscenze paleontologiche? Vedo in platea espressioni inequivocabili che mi suggeriscono l’opportunità di una piccola immediata deviazione. Per chi in sala fosse già attrezzato in materia consiglio una pennichella rinfrancante, mentre per chi volesse saperne qualcosa di più sul nostro sconosciuto passato, prego: è il momento giusto.
In principio eravamo scimmie, anche se sarebbe più corretto dire che il nostro albero genealogico passa da un antenato comune sia a noi che ai vari gorilla, oranghi e scimpanzé.Questo fatto non dovrebbe crearci problemi di autostima, visto e considerato che, punto primo, credo che una parentela con Cita, piuttosto che con King Kong sia più consolante rispetto ad una con un pesce di nome Wanda (giusto per metterla sul cinefilo) e, punto secondo, stiamo parlando di qualcosa risalente a svariati milioni di anni fa.
Per chi si trovasse in difficoltà per via della consanguineità con i nostri chiassosi cugini pelosi, nessuna paura: abbiamo chiuso i conti con questa imbarazzante parentela all’incirca tre milioni e mezzo di anni fa grazie alla comparsa della celeberrima Lucy, una donnina di poco più di un metro, dalle fattezze ancora scimmiesche, ma inequivocabilmente bipede, onnivora e dalla dentatura priva di canini sporgenti, elementi, questi, che la fanno ritenere indiscutibilmente l’elemento di distacco dalle scimmie antropomorfe. Senza bisogno delle mani per camminare, Lucy poteva manipolare gli oggetti, manipolando gli oggetti stimolava il cervello, un cervello stimolato utilizzava meglio le mani e via discorrendo in un circolo virtuoso che ha portato direttamente a noi, uomini moderni.
Ora, “direttamente” forse non è il termine più adatto, perché a partire da Lucy (nome in codice “A.L. 288”, in amarico “Dinqinesh”, che significa “Tu sei meravigliosa” e per noi semplicemente Lucy, da “Lucy in the sky with diamonds” dei Beatles) il nostro DNA si è modificato non poche volte dando vita a specie diverse che si sono succedute una all’altra fino a noi (più qualche ramo sterile rivelandosi un vicolo cieco dal punto di vista evolutivo e quindi un buco nell’acqua in termini di effettivi miglioramenti: un esempio su tutti il nostro vicino di casa Homo di Neanderthal, convissuto pacificamente con noi, ma estintosi circa quaranta mila anni fa, senza lasciare eredi.)
Lasciando perdere i rami secchi e concentrandoci su quelli floridi, osserviamo che a partire dalla piccola Lucy (tecnicamente un “Australopitecus Afarensis”) con una piccola variazione di DNA, il testimone viene passato all’Homo Habilis, un ometto magari ancora un po’ arboricolo, cioè legato alla vita sulle piante, ma sicuramente maggior assertore dei suoi predecessori della posizione eretta e dell’uso degli oggetti per i propri scopi, fossero anche solo sassi o bastoni.
Passettin passettino, eccoci arrivati intorno a due milioni e mezzo di anni fa ed ecco finalmente un Homo come Dio comanda.
Ulteriormente e indiscutibilmente più direzionato verso la forma umana attuale, l’Homo Erectus, diretto discendente dell’Homo Habilis, era un discreto pennellone di un metro e ottanta e passa, in grado di creare ottimi utensili per la caccia, di padroneggiare il fuoco, anche se ancora a rischio di finire parzialmente o completamente arrosto, di crearsi pellicce per proteggersi dal freddo, a innalzare muretti di cinta degli accampamenti e, cosa importantissima, a intravvedere l’importanza dell’architettura, magari anche solo limitata a capanne con però una propria organizzazione interna.
L’Homo Erectus, da un punto di vista scheletrico, era praticamente identico a noi se non per qualche particolare del volto, ancora un filino da ingentilire: mento ancora quel pelo sfuggente, arcate sopraciliari effettivamente un po’ troppo abbozzate e una faccia complessivamente troppo in evidenza rispetto al cranio. Indubbiamente molto meno performante di noi dal punto di vista speculativo, vantava già una buona padronanza della comunicazione e proprio anche grazie a questa capacità ha potuto avviare la scalata al vertice della catena alimentare organizzando gagliarde cacce di gruppo con asce e giavellotti, contro animali di taglia impensabile per quelle mezze tacche degli Habilis: addirittura mammut ed elefanti lanosi… altro che bruchi, vermi e piccoli animali come ratti, lucertole e serpenti da abbattere con quattro sassate e due pedate come si deve.
Grazie a una postura definitivamente eretta ed un bacino in grado di consentire un equilibrio assolutamente perfetto anche sui due piedi, l’Homo Erectus era in grado di lanciarsi in corse a perdifiato dietro le sterminate mandrie di bufali, zebre, gazzelle, cavalli, impala, gnu, orici, antilopi, per citare solo quelli che più volentieri avrebbe messo sotto i denti. Certo, quando finalmente si trovava a tu per tu con un mammifero di certe dimensioni, mica poteva sperare di convincerlo ad arrendersi o implorarlo di sacrificarsi in nome della scienza e dei principi dell’evoluzione. Occorreva usare le maniere forti ed anche questo richiedeva il suo bell’impegno, perché contro zoccoli e corna solo un’ascia di qualche chilo poteva convincere l’ungulato a venire a più miti consigli. Poco male, il confine tra un Erectus sazio ed un Erectus morto era talmente labile da non consentire dubbi sulla scelta tra lasciare a casa una pesantissima ascia o lasciarci le penne.
Non disdegnabile, in questo senso, la tattica alternativa di accorrere ululanti in gruppo sul luogo di un banchetto appena abbandonato da leoni o da tigri dai denti a sciabola per contendere, a suon di lance ed asce, ad altri spazzini tutto quel ben di Dio che, per buona creanza da parte dei felini di rango, veniva lasciata a disposizione della plebaglia. Certo, questa tattica significava nell’ordine: ammettere il proprio basso lignaggio nel ranking della savana; dover utilizzare una strategia attendista potenzialmente improduttiva e pertanto a rischio di digiuno; dovere seguire anche un po’ troppo da vicino i branchi di felini che potevano intravedere nei nostri predecessori interessanti antipasti piuttosto che tenere divagazioni rispetto ai grandi erbivori dal sapore ormai trito e ritrito; competere per i resti con iene ed avvoltoi, notoriamente animali di pessimo carattere, oltre che di dimensioni ragguardevoli e con l’abitudine di agire in gruppi; imbattersi in un ritorno di fiamma dei felini per la carcassa appena abbandonata ma ancora appetibile per via del contorno umanoide.
Un aspetto interessante era rappresentato dalle enormi distanze che venivano compiute da parte degli Erectus per raggiungere il proprio scopo venatorio. Tante erano le miglia percorse quotidianamente che non di rado capitava che i membri di un’orda restassero per giorni lontano dall’accampamento, spingendosi alle volte così lontano, da abbandonare l’idea di tornare indietro e chiedere il permesso di soggiorno presso una nuova orda trovata nel loro vagabondare.
Questo fatto, oltre ad indicare quanta strada dovessero percorrere i cacciatori appesantiti tra l’altro dagli strumenti di lavoro all’andata e dalle prede (quando andava bene) al ritorno, rappresentava un ottimo spunto per il rimescolamento dei geni, che quando non avviene produce notoriamente effetti poco felici sulla progenie, ma forniva di fatto anche una ghiotta occasione per svincolarsi da una relazione arrivata alla frutta piuttosto che da una suocera con vedute ancora poco moderne (dati i tempi non ci sarebbe stato da stupirsi). Sento risatine tipicamente maschili sollevarsi dalla platea… stavo scherzando: realmente capitava che le uscite a caccia esitassero nella scomparsa delle spedizioni, ma solo per la reale impossibilità dei cacciatori di ritornare sui loro numerosissimi passi.
Fin ora abbiam parlato dei cacciatori. Non è che per i cosiddetti raccoglitori le cose andassero molto meglio, visto che anche per loro s’imponevano giornate intere di cammino per racimolare bacche, tuberi e altri ortaggi che al pari degli animali si ostinavano a non volere agevolare in alcun modo i subumani, per esempio crescendo spontaneamente e a ciclo continuo ai margini dell’accampamento. E questo era un effetto poco piacevole della semistanzialità conquistata dagli Erectus, che a differenza degli Habilis, un po’ più girontoloni, avevano iniziato a elaborare uno dei concetti più importanti per l’umanità: il concetto di “casa”. Nulla a che vedere con le nostre abitazioni, per carità, ma comunque un primo approccio al riparo prolungato e quindi un punto base da cui partire per le partite di caccia e per i lunghi giri di raccolta. Ecco perché se ai cacciatori erano richieste lunghe marce per cercare e conquistare trofei, per i raccoglitori non buttava meglio: perché, con il passare delle settimane di permanenza in un posto, le primizie, e non solo quelle, venivano letteralmente spazzate via e si doveva ampliare sempre di più il raggio d’azione per trovarne di nuove. Considerando poi il fatto che spesso i cacciatori tornavano a mani vuote e a volte non tornavano affatto, e per effetto del classico downgrading delle mansioni tipico delle strutture in evoluzione, ecco che per i raccoglitori si imponeva di estendere la raccolta anche nei confronti di piccole cose in movimento, possibilmente previa imposizione di uno stop forzato. Come esimersi infatti dal trascurare le eventuali piccole prede disdegnate dai cacciatori professionisti: “Che ‘na sassata a un topo nun gliela vuoi tirà?”
Così ecco che cacciando e raccogliendo, raccogliendo e cacciando, faticando sette pellicce per procurarsi abbastanza cibo per poter essere sempre all’altezza delle necessità evolutive, anche per l’Homo Erectus, vero grande dominatore del pleistocene, arriva il momento di abbandonare le luci della ribalta dell’evoluzione per fare posto al suo successore, nello specifico la star incontrastata dell’olocene: l’unico, insuperabile, immarcescibile Homo Sapiens… noi, con modestia parlando.
Onore al merito e tanto di standing ovation per l’Erectus che se ne va: sulla scena c’è rimasto per la bellezza di quasi un milione e mezzo di anni (meglio di lui non ha fatto nessun’altro del genere homo: noi siamo solo a quota duecento mila), e se si ritira lo fa solo per lasciare lo scettro ad un essere più avanzato in termini evolutivi e tra l’altro selezionato proprio in base ai parametri testati dalla natura su di lui: grande capacità di sopportazione della fatica e grande resa energetica.
Perché in fondo di questo si sta parlando: di esseri selezionati dalla natura per essere delle macchine il più possibile perfette per affrontare con poca spesa energetica le avversità dell’esistenza, prima tra tutte quella relativa alla conquista del cibo.
Bene, giunti a questo punto, spero che a qualcuno almeno un paio di domande siano sorte spontanee. Per esempio potreste chiedervi perché, visto che noi siamo Sapiens, ci siamo così tanto sperticati in lodi per i nostri predecessori; e ancora che senso ha, per un manuale che si rivolge a dimagranti del terzo millennio, farla lunga sulle fatiche per l’approvvigionamento di chi ci ha preceduto, tra l’altro in un passato così remoto?
Ottime domande e altrettanto ottime spero siano le risposte.
Il fatto è che spesso noi ci dimentichiamo chi siamo realmente e, incapaci di ricordare il nostro passato, finiamo per perdere di vista le nostre origini e la nostra vera natura, che è quella di cacciatori, raccoglitori (quindi faticatori indefessi) ma soprattutto parchi consumatori di cibi naturali, ricchi di fibre, adeguate quantità di proteine e limitatissime quantità di grassi.
E c’era bisogno di perdere tutto questo tempo con la storia degli Erectus che camminavano fino a perdere la strada per tornare indietro? Certo, perché: primo è stato in questo modo che gli uomini, prevalentemente cacciatori, si sono dotati di una sorta di navigatore satellitare interno, molto più efficace delle compagne prevalentemente raccoglitrici (quest’ultime hanno per contraltare sviluppato una modalità multitasking impressionante, costrette a raccogliere, cacciare piccole prede e badare ai bambini tutto nell’insieme); secondo perché se non ci chiariamo su come siamo fatti veramente faremo fatica ad accettare qualsiasi forma di limitazione alimentare e qualsiasi invito al maggior movimento.
Se fossimo partiti direttamente da noi Sapiens, avremmo potuto credere che stavamo parlano di essere preistorici, diversi e quindi non paragonabili a noi uomini moderni. E invece no: per quanto simili a noi per molti versi, gli esseri preistorici erano gli Erectus. Erano loro quelli dall’aria minacciosa con qualche pelo di troppo e dall’aspetto poco sveglio. Noi siamo stati moderni fin dai nostri albori, occorsi duecentomila anni fa. Una dimostrazione? Fin dall’inizio della sera è presente in platea una coppia di giovani sapiens della prima ora opportunamente lavati, pettinati e vestiti in modo attuale: qualcuno è riuscito a riconoscerla? No, vero? Il Signor D’Leh e la signorina Evolet hanno la compiacenza di alzarsi? Non ci credevate eh? Uguali a voi in tutto e per tutto. Grazie signor D’Leh, grazie signorina Evolet siete stai molto gentili.
Del resto come pensare che potessimo cambiare in solo duecentomila anni, se per cambiare l’Homo Erectus di anni ce ne ha messo un milione e mezzo? Cosa sono duecentomila anni dal punto di vista evoluto? A guardarci con gli occhi di nonna Lucy siamo dei cucciolotti di al massimo tre anni. Per questo tutto ciò che ci è capitato negli ultimi decenni ha prodotto tanti disastri nel nostro organismo, perché non c’è stato tempo materiale perché si realizzasse un adeguamento strutturale in grado di affrontare dei cambiamenti insorti in modo tanto repentino.
Sto parlando in modo troppo criptico? Bene, forse è arrivato il momento di voltare pagina.
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