“Cosa ti manca, cosa non hai, che cosa insegui se non lo sai?”
“Si può dare di più” (Morandi, Ruggeri, Tozzi)
Ovvero del fatto che si fa presto a dire che è fame emotiva… dimmi un po’ come combatterla!
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Parlare di fame ai nostri giorni e dalle nostre bande suona un po’ blasfemo, dato che ben pochi di noi l’hanno veramente sofferta. Forse i nostri genitori, quasi sicuramente i nostri nonni, ma noi… ammettiamolo: se tanto mi da tanto la cosa più vicina alla fame che abbiamo sofferto è il salto della merenda.
Eppure, non facciamo in tempo a pronunciare la parola dieta, che immediatamente sentiamo i crampi della fame attanagliarci lo stomaco. Ma siamo sicuri che sia davvero fame? Non è che per caso confondiamo la fame con qualcos’altro? Non può essere che abituati a mangiare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, ciò che soffriamo è l’impossibilità di continuare ad esercitare questo diritto divino? Non sarebbe meglio smettere di fare domande retoriche e andare avanti con il discorso?
Ok, abbandoniamo ogni reticenza e facciamocene una ragione: la nostra non è fame, è tutt’al più il languore dovuto alla consapevolezza che lì nei pressi c’è qualcosa che in assenza di quella “balzana idea che mi è venuta in mente di mettermi a dieta… ma chi me l’ha fatto fare” potrei tranquillamente mangiare anziché star qui come una tigre in gabbia a rodermi il fegato a causa della balzana idea di cui sopra.
Ci siamo abituati troppo bene (è un eufemismo, ovviamente) per pensare di passare impunemente dal tutto è concesso al niente assoluto. In fin dei conti è come voler percorrere a ritroso il cammino del progresso: una volta si mangiava per vivere, poi si è passati a mangiare per desiderio ed ora si mangia perché ce n’è; converrete che tornare a mangiare per vivere, trascurando il desiderio ma soprattutto la sovrabbondanza di cibo non sia facile come dirlo. E del resto cosa ve lo dico a fare?
Ripartiamo pertanto con un punto di partenza che spero sia indubitabile: la nostra “fame” non è vera fame, è un sacco di altre cose, ma non fame e non facciamoci confondere dal termine “fame emotiva” piuttosto che “fame nervosa”, perché rischieremmo di non raccapezzarci più.
Ma allora se non è fame cos’è? Può essere un sacco di cose e se facciamo mente locale e pensiamo che per tutta la nostra infanzia attraverso il cibo sono stati curati un sacco di malesseri non dovremmo stupircene.
Così pertanto come c’è “chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione…” [Bocca di rosa, Francesco De Gregori n.d.r.]. noi mangiamo (al di fuori dei pasti) per un’infinità di motivi, quali:
tristezza, senza bisogno di arrivare a livelli di sofferenza quali la depressione;
ansia, che spesso somiglia tantissimo alla fame vera e propria per via della sensazione di “buco allo stomaco”;
noia, in cui il cibo rappresenta la via più semplice (e dannosa) per liberarsi dall’indolenza di un pomeriggio inoperoso piuttosto che di una mattina senza impegni;
solitudine, per la quale il cibo sostituisce qualcosa che manca, una persona specifica, semplice compagnia o contatti sociali, a volte esistenti, ma poco significativi;
rabbia o altri sentimenti analoghi quali risentimento, amarezza, indignazione e frustrazione;
felicità, in cui il cibo rappresenta il giusto completamento di un evento piacevole, di una ricorrenza o semplicemente di una bella giornata;
semplice presenza di cibo nei paraggi.
Va da sé che ogni volta che ci troviamo nelle condizioni di cui sopra, abituati come siamo ad assecondarle secondo abitudine, nello status di dimagranti impenitenti non troveremo di meglio che manifestare il nostro disagio sotto forma di fame.
Quale che sia la circostanza che induce la fame emotiva, la conseguenza è sempre la stessa: calorie introdotte indebitamente e, oltre tutto, senza esserne perfettamente consapevoli. Perché il punto è proprio questo: ci manca qualcosa e siccome non riusciamo a capire esattamente cosa, ricorriamo all’espediente più a portata di mano e che non manca mai: il ciiiiiIIIIIIIBOOOooo!
Ora, che questo rappresenti una fregatura lo capirebbe anche un bambino di sei anni, del resto l’ho capito anch’io che non sono una cima, è solo che non siamo in grado di focalizzare bene il nodo della questione; e il nodo della questione è semplicemente questo: ci manca altro! Aspettate, lo sottolineo alzando un filo la voce: CI MANCA ALTRO! Per cui se proprio non troviamo ciò che scarseggia (vicinanza, un po’ di serenità, una persona con scambiare due chiacchiere, il superamento di un momento difficile, un programma televisivo intelligente e interessante, qualcosa di gratificante da fare) e vogliamo per forza sostituirlo con un surrogato, che sia almeno un surrogato a basso impatto energetico.
In ogni caso ecco finalmente a seguire, che lo so che non ne potevate più di tutto questo panegirico, il mio contributo pratico alla questione:
uno. facciamocene una ragione ed accettiamo l’idea che potremmo dimezzare le calorie che ingeriamo quotidianamente e con buona probabilità riusciremmo lo stesso ad arrivare a sera e poi stupirci, al mattino seguente, di essere ancora al mondo e per di più molto meno affamati di quanto potremo pensare;
due. riempiamoci ai pasti sfruttando la verdura che con poche calorie riesce a foderare per bene lo stomaco e a farci sentire meno la necessità di tamponare la “fame emotiva” col cibo piuttosto che con altri surrogati;
tre. evitiamo di circondarci di cibo, lo stesso cibo che poi ci lacererà l’anima, divisi come saremo tra la voglia matta di metterlo sotto i denti e, contemporaneamente, la necessità di tenerlo a dovuta distanza, salvo poi soccombere e dovere fare i conti con i sensi di colpa,
quattro. guardiamo la fame con distaccamento e proviamo a considerare l’impulso a mangiare come un impulso estraneo, cioè qualcosa che non ci riguarda… certo lo si avverte, ma nessuno ci obbliga a dargli peso;
cinque. manteniamo i nervi saldi e cerchiamo di dare voce alla razionalità, ricordandoci che assecondare l’impulso di mangiare soddisfa al momento… ma farà aumentare di peso;
sei. sfruttiamo l’immaginazione e figuriamoci la fame come un’onda, che arriva, cresce, diventa insopportabile, poi però si assesta, si placa e scompare in pochi minuti;
sette. cerchiamo di distrarci con una delle migliaia di cose che si possono fare in un momento di difficoltà (telefonare ad una persona cara, guardare un film, leggere un libro, portare a spasso il cane, fare due passi in cortile, suonare alla vicina…) così, mentre si fa qualcosa di piacevole, con buone probabilità la fame passerà del tutto;
otto. attorniamoci di cibi a basso contenuto calorico ai quali attingere copiosamente se proprio proprio non ci riuscisse di superare la crisi senza mettere qualcosa sotto i denti.
Siccome vi conosco e so che vi aspettate il colpo ad effetto, ho lasciato per ultimo il consiglio finale, per il quale ci affidiamo ad un filmato molto esplicativo. Guardiamolo insieme.
Buio in sala, please.
Un po’ meno, gentilmente, ho visto un po’ troppi occhietti da nanna: basta la penombra… così va bene, grazie.
L’ottuagenario che vedrete nelle riprese effettuate a sua insaputa (tranquilli poi ha firmato la liberatoria per la proiezione) è lo zio Ernesto. Da che lo conosco l’ho visto vestito solo in due modi: nella versione invernale con la maglietta della salute di lana, invero un po’ ingiallita come si conviene alle magliette di lana di un certo spessore e di una certa, diciamo, longevità, calzoni di velluto a coste larghe marroni e bretelle ben tese sulla florida adipe addominale; nella versione estiva esattamente come appare in foto in compagnia della zia Ampelia. Lo vedrete impegnato in quella che la zia Ampelia ha definito la sua tela di Penelope: scavare di giorno la buca che riempirà di notte in pieno sonnambulismo. Lo zio Ernesto, da quando è in pensione, ha deciso che fosse suo dovere morale tramandare ai posteri le sue mercanzie più rappresentative, convinto di svolgere in questo modo un’opera di grande importanza per le generazioni successive, cosa per la quale la zia Ampelia nutre seri dubbi, senza per altro mai avversare apertamente il diretto interessato. Ma gustiamoci il filmato.
Vedete? Qui lo zio Ernesto sta scavando alacremente (in considerazione della veneranda età) la buca in cui deporrà la cassetta con tutti i suoi ammennicoli (notare lo sguardo di disappunto della zia Ampelia mentre gli porge la limonata per rinfrescarlo dalla calura estiva. Anche il fazzoletto in testa annodato ai quattro angoli è opera della zia Ampelia).
Ecco, al minuto quattro e ventisette secondi, le riprese cambiano: non sono più diurne, ma notturne effettuate con l’obbiettivo ad infrarossi ed hanno il caratteristico colore verdino. Vedete il nonno col pigiama a righe azzurrine in evidente stato catatonico che riempie la buca scavata nel pomeriggio precedente (e che evidentemente non potrà utilizzare il giorno dopo) affiancato dalla premurosa zia Ampelia in camicia da notte, stretta in un golfino di maglina, che gli tiene il bordo della giacca del pigiama perché non si sa mai.
Luce in sala, grazie.
Ciò a cui avete appena assistito è l’unica ripresa esistente di un paziente affetto dalla “Uncle Ernest Syndrome” o “Sindrome dello zio Ernesto”, che differisce dalla “sindrome di Penelope” per il fatto che in questo caso manca la volontarietà. Per il resto invece è analoga: si rovina in un botto quello che si è fatto di buono nei momenti precedenti.
Né più né meno quello che accade a noi quando cediamo di fronte al languorino mentre siamo impegnati a metter ordine alla nostra alimentazione in relazione all’intenzione di perdere peso: la fame, infatti, non è un effetto collaterale bensì l’effetto primario di tutto il nostro agire, quindi non solo il segnale evidente che l’impegno che stiamo profondendo sta centrando l’obbiettivo, ma l’obbiettivo vero e proprio. Si tratta, in definitiva, di riconoscere che quel fastidioso senso di buco allo stomaco rappresenta né più né meno il buco che noi abbiamo scavato e che il nostro organismo a breve cercherà di colmare bruciando i grassi depositati. Un po’ come lo zio Ernesto, in definitiva.
Anche se siamo abituati a vivere la fame come un disagio, sta proprio qui una delle chiavi del nostro successo: imparare a considerare la fame come elemento positivo da accogliere con favore, pensando che finalmente il nostro organismo può eliminare il grasso depositato! Anzi, già che ci siamo, prendiamo un post-it da appendere sul frigorifero e scriviamoci sopra: “Ho fame: se non mangio, il mio organismo può bruciare i depositi ed io posso dimagrire!”
Ben venga la fame, per intenderci.
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