Il Manuale di sopravvivenza per dimagranti ® – C’era una volta il cibo…

 “Quanno mámmeta t’ha fatta, quanno mámmeta t’ha fatta…

Vuó sapé comme facette? vuó sapé comme facette?…

Pe’ ‘mpastá sti ccarne belle, pe’ ‘mpastá sti ccarne belle…

Tutto chello ca mettette? tutto chello ca mettette?…”

“Comme facette mammeta” (Antonietta Rispoli ma anche Elvira Donnarumma)

 Ovvero del cibo che una volta nasceva per genio o per passione 

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Tra tutti gli aspetti che abbiamo trattato e che abbiamo già identificato come causa di sovrappeso prima e di ripresa dei chili poi, in verità ce n’è uno la cui importanza è tale da richiedere qualche precisazione. Mi riferisco al cibo, crocevia di molti aspetti, e per questo collegato a filo doppio, triplo… multiplo alle vicende umane.

Che la storia del mondo passi attraverso la storia del cibo (la prendo dichiaratamente larga) non è difficile da immaginare: prima tutti a raccogliere per migliaia e migliaia e migliaia d’anni, poi alcuni a raccogliere e altri a cacciare ancora per migliaia e migliaia e migliaia d’anni, poi quelli che raccoglievano quel che capitava a seminare e raccogliere meno casualmente e qualcuno a cacciare per migliaia e migliaia e migliaia d’anni ancora…

Immaginiamo tutti che non ci sarà voluto un genio, (stavolta la faccio volutamente corta) una volta acquisito nel pleistocene la padronanza del fuoco, a fare due bistecche alla brace, poi, col tempo, due pannocchie col grasso e infine due bucatini all’amatriciana…

Quello che veramente può lasciare basiti, è scoprire “quanto” la storia dell’umanità e quella del cibo siano compenetrate, al punto da presentare inquietanti paralleli soprattutto laddove meno lo si immagini. Mi riferisco specificatamente ai “settori ricerca” delle industrie alimentare, quelli dove i cibi vengono letteralmente progettati.

Una delle cose che probabilmente pochi di voi in sala e a casa immaginano è, infatti, l’esistenza di una vera e propria area di ricerca della food industry, indirizzata a definire con precisione i parametri costruttivi dei propri prodotti, che non possono essere semplicemente buoni: devono essere assolutamente e incontrovertibilmente irresistibili a tal punto da indurre, fin dai primi morsi, una sorta di dipendenza.

Nulla di nuovo, osserveranno i più smaliziati tra voi: tutte le aziende cercano di penetrare il mercato nel modo più vantaggioso per le proprie finanze. Il “nulla di nuovo” però non è detto che equivalga a “nulla di male”, e qui, se me lo concedete, direi di prendercela comoda e godersi una piccola divagazione sul tema. Ovviamente se ritenete poco interessante le prossime pagine potrete saltarle senza problemi, anche se, avendole pagate…

Partiamo con una considerazione incontrovertibile: un tempo, gli alimenti di successo nascevano ben lontani dai laboratori e altrettanto distanti dalle tavole rotonde dei consigli di amministrazione. Normalmente rappresentavano il risultato di brillanti intuizioni oppure nascevano per caso, o ancora per errore. Esistono un’infinità di esempi di grandissimi successi, anche planetari, che hanno superato in modo assolutamente imprevisto, ma anche imprevedibile, le aspettative del loro inventore.

Abbandoniamo per un attimo il discorso sulla food industry, e lasciamoci trasportare dal racconto delle origini di alcuni prodotti di successo nati nel passato che, per quanto infarcite di risvolti leggendari piuttosto che epici, hanno il potere di evocare immagini ben diverse da quelle che faranno loro seguito, contribuendo a sottolineare come non tutto il progresso abbia portato ad un miglioramento delle condizioni di vita reale e non solo apparente.

Nel nostro excursus storico seguiremo una logica banalissima, quella temporale, introducendo per ciascuno degli ultimi secoli un aneddoto culinario a conferma di come molte delle attuali prelibatezze siano nate più a seguito di vicende tipicamente umane, che non a calcoli e logiche di mercato. Ci aiuteranno come sempre i filmati che scorreranno alle nostre spalle: noi li commenteremo giusto quel che basta ber capire al meglio cosa sta succedendo.

Siamo alla fine del millequattrocento, quasi millecinque, presso la corte di un personaggio molto importante e avvolto da una forte aura di timore e rispetto. È lui che presiede il sontuoso banchetto di Natale, seduto alla sommità dell’immensa tavola imbandita: scuro di carnagione, tarchiato, sguardo truce è proprio lui, Ludovico Maria Sforza detto “il moro”.

Siamo alla fine del pranzo, e qualcosa sembrerebbe essere andato storto nelle cucine: a fronte di una cena capolavoro il dolce è appena stato bruciato nel forno! Come potete immaginare il dramma è alle porte: cosa pretenderà il duca per lavare l’onta di un simile affronto, per di più di fronte ai suoi illustri e nobili commensali, lui che era stato magnate addirittura di Leonardo da Vinci? Fortunatamente le cose andarono bene (e così vi risparmio il patema circa la sorte del povero cuoco) perché in suo soccorso venne un giovane di bottega, tale Toni, che si propose di togliere le castagne dal fuoco (anche se avrebbe fatto meglio a togliere dal fuoco il dolce prima che bruciasse) offrendo a titolo di risarcimento un dolce senza pretese che aveva confezionato in mattinata con quanto era rimasto in dispensa: farina, burro, uova, scorze di cedro e uvetta.

Forte del detto secondo il quale “piutost che nient, l’è mej piutost” (per i non milanesofoni: “piuttosto che niente è meglio piuttosto”) lo chef si decise a tentare la sorte e visto come andarono le cose non c’è bisogno di aggiungere che il successo fu enorme. Chiamato a dare notizie di una simile prelibatezza, il cuoco uscì dal nascondiglio dietro il quale osservava tremebondo le reazioni dei commensali e dichiarò in tutta onestà che quel dolce non era opera sua, ma era il “pan de Toni”: era nato il panettone.

Abbandoniamo con serenità la corte di Ludovico il Moro e dirigiamoci verso sud est. Lasciamo che il tempo ci passi un po’ addosso mentre percorriamo i novecento metri che ci separano dal Duomo di Milano ultimato da poco.

Siamo nel 1754, più precisamente l’otto settembre, e, nelle cucine di una non meglio precisata locanda un giovane truffaldino sta versando di nascosto una polvere gialla nel paiolo dove sta cuocendo il risotto per il banchetto nuziale che si svolge sotto il portico. La sposa è la figlia del mastro vetraio che ha decorato alcune vetrate del Duomo e il giovane che ha appena compiuto l’insano gesto è uno dei commensali.

Ma niente paura: quella polvere gialla è solo la polvere che un giovane vetraio al seguito di Mastro Valerio di Fiandra, mette un po’ in tutte le tinte per dare il caratteristico splendore. Il nome del giovane non è noto, ma il suo soprannome sì: “Zafferano”, ovviamente.

La leggenda in verità è anch’essa tinta un pochino di giallo: c’è chi dice che a fare lo scherzo fu “Zafferano”, forse in veste d’invitato o forse nel ruolo di sposo, altri invece che furono gli amici dello sposo, in questo caso sicuramente “Zafferano”, per sottolineare la sua bizzarria. Quale che fosse il brillante, ma inconsapevole ideatore del risotto allo zafferano, il piatto ebbe un enorme successo. Immagino ne converrete tutti.

Facciamo nuovamente un salto di cento anni giusti, e dirigiamoci a Epernay (Francia) nella valle della Marna, per fare la conoscenza di un giovane abate benedettino che, fedele alla regola del fondatore dell’ordine, alterna alla preghiera ore e ore di lavoro nelle vigne attorno all’Abazia di Hautvillers. È il 1670 e il giovane Dom Pierre è stato chiamato al convento per dedicarsi alla parte amministrativa dell’Abazia. Oltre al convento, però, sono soprattutto le vigne a destare la sua preoccupazione per lo stato di degrado così palese da indurlo a dedicarvisi con abnegazione per riparare ai danni lasciati da quasi un secolo di guerre e saccheggi. È un vero peccato perché quell’area geografica è una zona ad alta vocazione vinicola dove si produce un vino rosso, fermo, fine e leggero, gradito anche dai regnanti francesi, che non si limitano ad apprezzarlo sulle loro tavole, ma li offrono spesso agli omologhi europei in segno di omaggio.

L’abate Pierre profonde grandi energie non solo per riadattare le vigne al precedente standard produttivo, ma mette anima e corpo anche per selezionare le uve migliori, definire i terreni più vocati alla produzione, affinare le tecniche di assemblaggio di uve dello stesso tipo provenienti da zone diverse, impostare criteri di pigiatura ben precisi tanto che il vino che ne esce ora è un vino completamente diverso: dolce e chiaro pur provenendo da uve a bacca nera.

Le cose però non vanno per il verso giusto, perché a causa dell’aggiunta di zuccheri e fiori di pesco al vino da parte dell’abate (per rendere più gradevole il sapore) o per la prassi innovativa della conservazione direttamente in bottiglie anziché in botti (per conservare più efficacemente gli aromi) il prodotto finale non ha la tradizionale fermezza, ma possiede una naturale carica di bollicine che fa letteralmente impazzire il povero abate.

Fu necessaria l’adozione delle bottiglie inglesi, di vetro più resistenti, e poi dei tappi portoghesi, a tenuta più stagna, per permettere a quel capolavoro di vino di essere riconosciuto come tale; tant’è che ancora oggi, dopo centinaia di anni, il nome di Dom Pérignon e del suo Champagne non lasciano dubbi sul pregio delle sue intuizioni e non solo su quelle.

Un’altra invenzione francese (e siamo due a due) arriva, secondo la leggenda, nel 1756 quando viene preparata per la prima volta la regina delle salse: sua maestà la maionese. A prepararla è un cuoco al seguito, del pronipote del cardinale di Richelieu, niente po’ po’ di meno che l’ammiraglio Louis Francois Armand du Plessy, principe di Mortagne, marchese del Pont-Courlay, conte di Cosnac, barone di Berbezieux, barone di Coze, barone di Saugeon, duca di Fronsac e infine, e per l’appunto, duca di Richelieu, un uomo dalle tali virtù e morigeratezze che il reggente Filippo d’Orléans ebbe a dire che “Se avesse quattro teste, avrei di che farle tagliare tutte e quattro… se ne avesse una… . Tralasciando gli aspetti personali della vita del Marchese osserviamo che, verso la metà del secolo, evidentemente superata la diatriba con la reggenza, guidò la marina francese alla conquista dell’Isola di Minorca, per quasi cinquant’anni occupata dagli inglesi. Sarebbe stato proprio durante l’assedio della capitale, Port Mahon, che il cuoco maiorchino avrebbe avuto la brillante idea di realizzare una nuova salsa per condire le carni fredde, maneggiando solo tuorlo d’uovo crudo, olio e limone. In questo caso la particolarità non risiederebbe solo nel fatto che il cuoco riuscì a creare un simile capolavoro con così pochi ingredienti quanto nel metodo di (non) cottura dovuto all’impossibilità di accendere fuochi nell’accampamento francese. Non è difficile, infatti, immaginarsi il nobile Richelieu dare al cuoco un unico significativo suggerimento: “Mi raccomando, senza accendere fuochi: siamo sotto il tiro dell’artiglieria inglese”.

Cambiamo nuovamente secolo e trasvoliamo addirittura nell’Atlanta del XIX secolo, perfettamente ricostruita dopo il terribile incendio reso celeberrimo dal film “Via col vento”. Qui un intraprendente farmacista cerca di rendere più estendibile un rimedio contro il mal di testa molto in voga al di qua dell’atlantico: il “Vin Mariani”, un intruglio a base di vino e foglie di coca inventato dal farmacista Angelo Mariani. Il rimedio è, in effetti, molto valido, visto il successo ottenuto anche presso la Santa Sede, ma il fatto di essere realizzato su base alcolica ne limita notevolmente la diffusione tra le signore per bene della capitale della Georgia. Ecco pertanto che il dottor John Stith Pemberton, l’8 maggio 1886, decide di sostituire l’alcol con un estratto di noci di cola, mantenendo intatto il potere antiemicranico e rendendo la bevanda assumibile da tutti. Nasce così la… “Pemberton’s French Wine Coca”.

Il nome definitivo di “Coca-Cola” arriva solo in seguito, quando il povero dr Pemberton, caduto in disgrazia, vende la formula segreta della coca cola ad un imprenditore locale per la misera cifra di cinquecento dollari, non traendo così alcun profitto dalla sua invenzione. Del resto, un successo tutt’altro che prevedibile, per quello che avrebbe dovuto essere un semplice rimedio per la cefalea.

Finiamo la nostra carrellata con una storia che appartiene più di ogni altra alla nostra storia, quella della crema di cioccolato alle nocciole più famosa dell’universo (sì, proprio quella senza la quale “che mondo sarebbe?”) nata probabilmente senza la minima idea che potesse diventare il mito che è diventata nel mondo.

In principio era il prestigioso cioccolato con nocciole del Piemonte, prodotto di fascia alta della pasticceria piemontese, troppo di fascia alta per consentire una buona resa economica in quegli anni di guerre e dopoguerre: bisognava escogitare un prodotto magari di qualità meno elevata, ma con maggiori margini di vendibilità. In effetti, se in quel periodo il cioccolato costava un occhio della testa, le nocciole non erano da meno, visto e considerato anche quante se ne buttavano via rompendole accidentalmente insieme ai gusci…

Ecco così che Mastro Pietro Ferrero, nel retrobottega del suo negozio di via Rattizzi ad Alba, amalgamando l’impasto già noto del cioccolato gianduia con il burro di cocco, ottiene un prodotto molto più popolare e sicuramente molto più acquistabile, il Giandujot: originale, straordinariamente morbido, confezionabile in pani avvolti nella carta stagnola e vendibile a fette “un tot all’etto”.

Siamo nel ‘45 e se già il Giandujot si vende che è un piacere sarà del 1949 la svolta cruciale. Secondo la leggenda a causa del caldo torrido di quell’estate i morbidi panetti di cioccolata non vogliono saperne di restare solidi tanto da indurre mastro Ferrero a utilizzare bicchieri e barattoli per la loro vendita. Ovviamente l’intraprendente famiglia Ferrero non si lascia scappare l’occasione di creare una cosa mai vista: una vera e propria spalmabilissima marmellata di cioccolata e nocciole, la Supercrema Ferrero.

Per venticinque anni la Supercrema Ferrero è il prodotto di punta dell’industria di famiglia, ma è per opera del figlio di Pietro, Michele, che nel 1964, grazie ad un’ultima aggiustatina alla formula, nasce la Nutella: la crema di cioccolato alle nocciole più nota del mondo.

Siamo così ai nostri giorni, nel XXI secolo, epoca di sperimentazioni e di transgenetica: il caso e l’intuizione non possono più farla da padrone. Dietro al cibo non ci sono più garzoni di bottega, vetrai truffaldini, abati cultori del buon vino, cuochi sotto assedio, farmacisti e mastri cioccolatai. Non ci sono unicamente mogli, mamme, chef per passione, cuochi della domenica a interessarsi agli alimenti: ci sono industrie e multinazionali per le quali ciò che conta non è salvarsi le terga per un dolce bruciato la sera di Natale, fare uno scherzo ad un banchetto nuziale, rimettere a posto le tenute di un’abazia, creare una salsa senza accendere fuochi, estendere il mercato di un medicinale, fare buon uso della scoperta che la cioccolata esposta al calore diventa spalmabile. Oggi quel che conta è penetrare il mercato e per questo diventa indispensabile la conoscenza del target, il marketing, le ricerche di consumo, la fidelizzazione: la maggior parte dei più recenti prodotti alimentari è progettata e realizzata in centri di ricerca che nulla hanno a che spartire con cuochi, chef, pasticceri, viticoltori, ecc ecc… Oggi sono i CDA a dettare le linee commerciali alle quali dovranno assoggettarsi i ricercatori con un unico scopo: trovare il prodotto in grado di affezionare la maggior parte dei consumatori. Semmai ci penserà la pubblicità a colmare le lacune del prodotto.

Tutto normale? Tutto nella norma? Tutto logica conseguenza del progresso? Lo scopriremo nella prossima puntata…

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