Cento chili in cento giorni. Ottava settimana: la fame

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“E chiese al vecchio dammi il pane, ho poco tempo e troppa fame…

 “Il pescatore” (Fabrizio De Andrè)

 Ovvero della fame che a volte è troppa e quando il tempo è pure poco succede quel che succede… s’ingrassa.

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Nemico pubblico numero di ogni dimagrante? Se lo chiedessimo a cento persone diverse avremmo cento risposte… assolutamente identiche: la fame.

La fame è beffarda e tiranna: ci attanaglia le viscere, ci prende la gola, ci procura visioni a cui non possiamo reggere; tutto il buono a cui abbiamo rinunciato il giorno in cui abbiamo accetto l’idea di porre termine ai nostri eccessi. Ed eccessi è certamente il termine corretto, perché contrariamente a quanto mediamente crediamo il mondo non è ingrassato con l’aria e l’acqua, ma perché mangiamo troppo.

Il fatto è che la fame ha assunto nel tempo un significato completamente diverso, passando da semplice segnale di un basso livello energetico a generico indice di disagio interiore. È la fame emotiva, che vera è propria fame non è, ma che produce lo stesso irresistibile effetto: la caccia al cibo! Diventa indispensabile esserne cosciente per potere prendere gli adeguati provvedimenti, come la ricerca di sostituzioni alla fame indispensabili per non lasciarsi sempre irretire da stimoli simili alla fame che con la fame vera e propria ben poco hanno a che fare.

In definitiva bisogna imparare a usare il cervello fino a capire che forse la fame non è propriamente quel nemico pubblico numero uno di cui all’inizio… santa fame.

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Cinquantesimo giorno – La fame

Mangiamo troppo. Magari senza che ce ne accorgiamo o probabilmente credendo di non esagerare più di tanto, però è un dato di fatto: se il nostro peso è aumentato è perché lui sta consumando meno (energia) o perché noi stiamo consumando di più (cibo).

Indipendentemente dal fatto che si mangi più di quello che ci serva o ci serva meno di quello che si mangi (distinzione fondamentale quanto inutile ai fini pratici) il punto è che mediamente si mangia veramente troppo e ce ne accorgiamo facendo un parallelo con quello che accadeva meno di un secolo fa (un’inezia rispetto al tempo trascorso dall’uomo sulla terra) quando la domanda “cosa mangeremo oggi?” aveva una connotazione completamente differente da quella odierna. Un tempo, infatti, il dubbio non si riferiva all’imbarazzo della scelta quanto alla possibilità tutt’altro che remota che sulla tavola non arrivassero sufficienti vettovaglie per sfamare l’intera famiglia (o clan oppure orda a seconda del periodo storico o preistorico di riferimento). Allora sì che la fame era fame, e quando la pancia borbottava, borbottava sul serio e non ce n’era per nessuno. Adesso le cose sono cambiate e sono cambiate parecchio, al punto che mentre una volta la fame anticipava il cibo, nel senso che la fame metteva in moto la ricerca di cibo, adesso è il cibo che anticipa la fame, nel senso che è la presenza di cibo a dar luogo al senso di fame. E neppure serve più la presenza a innescare il nostro desiderio: è sufficiente la consapevolezza che a distanza impalpabile ci sia qualcosa di buono che reclama la nostra attenzione. Di nuovo ecco che ritorna alla memoria la pubblicità cult degli anni ’90: “Ambrogio… avverto un certo languorino… la mia però non è proprio fame… è più voglia di qualcosa di buono.”

E in fin dei conti il punto è questo: ma che razza di fame potrà mai essere la nostra?

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Cinquantunesimo giorno – Perché mangiamo troppo

C’è stato un tempo in cui mangiare rappresentava una necessità primaria, uno di quei bisogni per i quali non si guardava in faccia a nulla: bastava che una cosa non si muovesse per renderla appetibile e nel caso non fosse stata proprio ferma… Bhe non si poteva certo andare per il sottile: o la si fermava, o la si mangiava così com’era, ancora un po’ in movimento.

Del resto la vita era quella che era e se si voleva tirare in là un giorno in più non era certo il caso di fare gli schizzinosi: altro che o mangi questa minestra o salti la finestra. La (non) possibilità di scelta era praticamente coincidente con il punto zero: o mangi o muori.

Gran brutti tempi, quelli, anche in considerazione di quello che finiva sotto ai denti: tutta roba cruda, e senza concessioni al gusto… C’era però un aspetto che dovrebbe per lo meno incuriosirci: quando si mangiava per sopravvivere e non, parafrasando, per rabbia o per amore non era probabilmente tutto più sano, non tanto dal punto di vista alimentare quanto dal punto di vista del senso delle cose? Era un mangiare per necessità, così come lo era ed è per tutte le categorie animali. Qualcosa però è cambiato ed è successo quando l’ingegno umano ha iniziato a percorrere le strade del gusto creando alimenti un tempo inesistenti, rendendoli progressivamente sempre più appetibili. Con l’avanzare del pensiero umano è progredito anche l’approccio al cibo e così molti alimenti sono diventati semplici ingredienti che sapientemente abbinati hanno dato vita a connubi insospettabili quanto irresistibili.

Ma era ancora il tempo del vorrei ma non posso (sempre) per cui il cibo era magari un po’ meno bisogno e un po’ più desiderio. Ora siamo su tutt’altro pianeta: non è più né il bisogno né il desiderio a guidarci, ma la semplice presenza che impone di fatto il consumo.

Mala tempora, converrete.

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Cinquantaduesimo girono – La fame emotiva

Che sia di origine organica piuttosto che di origine emotiva la fame non è mai una buona cliente con cui fare affari. Tuttavia, che sia sostenuta da uno stato energetico basso, piuttosto che compatibile con uno stato energetico indifferente, è con la fame che ci tocca fare i conti perché è proprio questo elemento, tanto astratto ma dalle implicazioni tanto concrete, a rappresentare il crocevia delle nostre buone intenzioni.

La fame fisica è quella che dipende dal fatto di essere a secco di energia ovvero di essere arrivati “in riserva”. Ecco che la metafora dell’automobile rappresenta l’esempio migliore: così come un’auto fa rifornimento di carburante, una persona mangia e poi per un po’ è a posto. Dopo qualche tempo l’energia scende nuovamente al punto da non essere più sufficiente per cui ecco che arrivano i segnali per fare un nuovo approvvigionamento. Mentre nella macchina è la spia della benzina a comunicare la necessità di un nuovo rifornimento, nell’uomo a suonare la sveglia è la fame. Questa situazione, a dire il vero, si realizza poco di frequente e non è sicuramente la più comune. Mediamente, infatti, la fame fisica riguarda le persone che vivono in condizioni disagiate, con scarsa disponibilità di cibo, o viceversa quanti fanno lavori molto impegnativi dal punto di vista fisico. La maggior parte delle persone, infatti, è abituata a “rifornirsi” con tale continuità da rendere molto improbabile la condizione di reale carenza energetica. È più o meno come il guidatore che facesse carburante metodicamente e senza attendere il segnale di riserva.

Alla luce di quanto detto la domanda sorge spontanea: di che tipo è la nostra fame? È di natura fisica o più verosimilmente di origine emotiva? Davvero pensiamo che tutti quegli spuntini e quegli stuzzichini abbiano a che fare con l’imminente rischio di stramazzare al suolo per le conseguenze dell’inedia?

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Cinquantatreesimo giorno – La fame emotiva (2)

Riconoscere che buona parte delle circostanze che ci fanno saltare il cibo in bocca non abbia nulla a che vedere con una necessità fisica del nostro organismo potrebbe costituire già un buon punto di partenza nella comprensione della fame e nel suo contrasto.

Il presupposto da cui dobbiamo partire è che in caso di fame emotiva non è l’energia a mancare ma qualcos’altro, qualcosa che non ha nulla a che fare con la fame ma che la fame si presta a farne le veci, come se fosse un valido sostituto, soddisfacendo il quale soddisferemmo anche il bisogno che interpretiamo come fame. Mangiare in caso di fame emotiva, però, non serve a nulla se non ad aumentare il nostro peso, per cui sarebbe opportuno iniziare ad ammettere che sovente non si mangia per vera e propria fame ma per altri motivi, tutti legati alla sfera emotiva, quali, per esempio:

la tristezza, senza bisogno di arrivare ad una vera depressione;

l’ansia, in cui la fame assume le caratteristiche della fame vera e propria con il classico “buco allo stomaco”…

la noia, per la quale il cibo rappresenta la via più semplice per interrompere un pomeriggio inoperoso o una mattina senza impegni;

la solitudine, in cui il cibo sostituisce la mancanza di una persona specifica o di validi contatti sociali;

la rabbia, che determina una fame aggressiva che oltre a non risolvere la situazione ne peggiora un’altra…

la felicità, che chiede al cibo di suggellare un evento, una ricorrenza o un evento sociale.

Quale che sia la circostanza che induce la fame emotiva, la conseguenza è sempre la stessa: calorie introdotte indebitamente e, oltre tutto, senza esserne perfettamente consapevoli. Urge assolutamente escogitare un sistema che permetta di affrontare la fame emotiva il più possibile ad armi pari.

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Cinquantaquattresimo giorno – Sostituzioni alla fame

Se nel caso della fame fisica quel che manca è l’energia, per cui con un bel pasto o un bello spuntino il vuoto esistente viene colmato e la fame passa, nel caso della fame emotiva il livello d’energia del nostro corpo è già sufficiente per cui mangiando non facciamo altro che fornirne un surplus che si trasforma immediatamente in grasso.

Ma ha senso fornire carburante ad un corpo che in realtà chiede altro: vicinanza, un po’ di serenità, una persona con scambiare due chiacchiere, il superamento di un momento difficile, un programma televisivo intelligente e interessante, qualcosa di gratificante da fare… insomma mille altre cose? Se quello che manca non è il cibo, non sarebbe più conveniente cercare ciò che effettivamente manca o quanto meno tentare di tamponare l’assenza di qualcosa che non sia il cibo con qualcos’altro di meno compromettente dal punto di vista della salute? Esiste un’infinità di cose che si potrebbe fare anziché mangiare:

tenere a disposizione un libro da leggere o un dvd da guardare solo in caso di fame;

posticipare le cose che si fanno più o meno abitualmente a quando il desiderio di mangiare si farà più forte: una telefonata, la spesa, qualche commissione, scrivere una mail, portare qualcosa da qualche parte, fare una passeggiata…

Se le distrazioni non bastassero una tecnica potrebbe essere quella del distaccamento, ovvero la presa di coscienza dell’esistenza di uno stimolo associata alla tranquilla presa di distanza da esso. D’altronde non siamo mica qua a soddisfare tutti gli stimoli che ci passano per la mente. E poi la fame è come un’onda, che sale, sale, sale… ma alla fine, sempre, inevitabilmente scende: non ha senso rimpinzarsi sapendo che superato questo momento non proveremo più alcuna impellenza nel giro di pochi minuti!

La fame emotiva non è imbattibile e poi un po’ di sano orgoglio non vogliamo mettercelo?

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Cinquantacinquesimo giorno – Usare il cervello

Se la fame emotiva può essere vinta mettendo in atto un’infinità di misure utili per contrastarla, per la fame fisica il discorso cambia parecchio, al punto tale che dovremmo cambiare parecchio noi il nostro modo di intenderla e di… cercarla.

Detta così potrebbe anche sembrare un azzardo, del tipo “andare a letto con il nemico” e “crescere una serpe in seno”. Tuttavia se pensiamo che il presupposto di fondo è che ci troviamo in dieta e il nostro scopo è sicuramente mangiare meglio ma anche (e per qualcuno soprattutto) perdere peso, dovremmo essere disposti a rivedere il significato che diamo alla fame, perché in realtà per noi la fame non è un effetto collaterale bensì l’effetto primario di tutto il nostro agire, non solo il segnale evidente che l’impegno che stiamo profondendo sta centrando l’obbiettivo, ma l’obbiettivo vero e proprio. Si tratta, in definitiva, di riconoscere che quel fastidioso senso di buco allo stomaco rappresenta né più né meno il buco che noi abbiamo scavato e che il nostro organismo a breve cercherà di colmare bruciando i grassi depositati. Del resto, dovendo piantare un albero in giardino, considereremmo forse la buca creata un effetto collaterale dello scavare? Certamente no: è proprio ciò che intendevamo fare e allo stesso modo deve essere intesa la fame, ovvero un buco creato con l’intenzione di riempirlo con altro. Nel caso del giardino con la pianta, nel caso della fame con il grasso in deposito.

Nel capire a fondo questo aspetto siamo un po’ ostacolati dai pensieri associativi, che ci fanno ritenere dannoso ogni fastidio: la malattia è un fastidio e la medicina è la cura; la fame è un fastidio e il cibo è la cura. In realtà, parlando di fuori pasto, la fame è la cura e il cibo il fastidio.

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Cinquantaseiesimo giorno – Santa fame

Rivedere il concetto di fame è uno dei propositi che deve porsi chiunque segua un qualsiasi programma alimentare perché in definitiva c’è forse altro contro cui dovremo combattere da oggi in avanti per imparare a mangiare come si deve, raggiungere un buon peso e poi mantenerlo?

Ribadiamolo ancora una volta: per chi segue una dieta la fame non è negativa, anzi, è la cosa più positiva e importante che ci sia, perché è il segnale che il corpo ha finito l’energia che gli abbiamo dato con l’ultimo pasto ed ora può finalmente iniziare a prenderla dai depositi. Diversamente è come se nell’epoca dei frigoriferi, al momento del pasto, anziché far fuori le scorte continuassimo ad andare al supermercato a comprare qualcosa da mettere sotto i denti… Come se avendo riempito il camper di tutto il necessario per sostenere un mese di viaggio scegliessimo ogni volta di pranzare e cenare fuori, portandosi dietro quintali di roba destinata a scadere. Ricordiamocelo: quando il nostro organismo suona il campanello della fame, lo fa solo per indicare di avere esaurito le calorie dell’ultimo pasto senza dire cose del tipo: “Hey, ho proprio bisogno di un panino al prosciutto” oppure “Uhm, che ne diresti di mangiare una fetta di torta così evitiamo di morire all’istante”. Queste sono solo nostre rielaborazioni… lui manda esclusivamente un segnale di esaurimento di carburante, noi possiamo tranquillamente lasciare che sia lui a smazzarsela.

 

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